Ibra VS Lebron
Spesso quando le conversazioni umane avvengono in maniera, passateci il termine, diacronica, le probabilità che ne nasca una incomprensione sono altissime. Zlatan Ibrahimovic e Lebron James non sono uguali ma a ben guardare, le loro storie di vita non sono nemmeno poi così distanti.
Emarginati, con infanzie complesse, ragazzi che hanno dovuto letteralmente arrangiarsi, sbarcare il lunario con mezzi di supporto scarsi o spesso del tutto assenti.
Entrambi sono stati vittime dirette di razzismo, appartenenti a minoranze nel proprio Paese.Ibra è figlio di immigrati jugoslavi in Svezia, cresciuto in case popolari dove è bene guardare dritto davanti a sè e non perdersi in troppe distrazioni. La sorella ha avuto per tutta l’infanzia di Zlatan problemi con la droga e con cattive compagnie, la madre è stata ripetutamente coinvolta in guai con la giustizia e la lista potrebbe continuare. La storia di Lebron è nota. Solo un miracolo poteva condurlo dove è ora. Bambino senza fissa dimora, senza padre, con molte più assenze da scuola che speranze, la strada era il suo destino più che probabile, eppure…
Ibra e Lebron hanno fatto affidamento su se stessi. Hanno sviluppato un ego smisurato, una confidence nei propri mezzi oltre il limite dell’esuberanza e della presunzione. Con le dovute differenze, i due campioni hanno preso per mano le rispettive carriere e ne hanno fatto qualcosa di inimmaginabile e fenomenale, partendo da zero.
Chi ci avrebbe scommesso? Chi ha creduto in loro dal principio senza mai dubitare? Probabilmente nessuno e questo è stato l’ingrediente unico dei rispettivi percorsi sportivi, il desiderio di dimostrare di poter essere i migliori “against all odds”.
La querelle tra i due campioni era un piatto troppo succulento in un’epoca così altamente digitalizzata. I media l’hanno cavalcata, riportata oltreoceano ed ottenuto il tanto atteso dibattito.
Facendo un rapido recap, Ibra ha elogiato le prestazioni sportive di James ammonendolo però per l’eccessiva dispersione di energie in ambito politico ed invitandolo a concentrarsi su ciò che sa fare meglio. Lebron, atleta politicizzato ed impegnato in battaglie sociali a favore degli afro americani (e non solo), punto nell’orgoglio ha rispedito i consigli al mittente.
Siamo convinti che, sebbene parlarne possa essere costruttivo ed il dibattito sia sempre il benvenuto, la polemica sia davvero superficiale.
Ibra, lo sappiamo, a 40 anni non vuole smettere di essere Ibra. Finché sarà di scena sui nostri campi non potrà rinunciare a quel suo fare spaccone e borioso, non potrà astenersi dal fare dichiarazioni che riempiano i titoli dei giornali, che creino irritazione e generino contrasto. È sempre stato così, potremo mai pretendere che cambi proprio ora ad un passo dalla mezza età?
Siamo certi che il calciatore non criticasse realmente Lebron per il suo impegno sociale, per le scuole aperte, per l’attenzione alle diseguaglianze sociali. Si limita tutto ad un maschio alfa che ne pungola un altro. Era necessario? NO. Siamo d’accordo con Ibra? Assolutamente NO. Crediamo davvero che Ibra sia indifferente alle tematiche sociali? Parimenti NO.
Basti pensare che “lo zingaro”, come brutalmente è stato e viene appellato dalle frange più ignoranti delle tifoserie, conosce bene il significato di emarginazione, di appartenere alla minoranza e si è inoltre spesso impegnato in prima persona per problematiche sociali. Ricorderete il suo corpo temporaneamente tatuato con nomi di bambini afflitti da malnutrizione o la beneficienza che svolge. Ha detto una frase sbagliata per fare rumore e l’effetto boomerang gli si è ritorto contro; a 40 anni è giusto che ne accetti le conseguenze ma, se possibile, non spingiamoci oltre.
Lebron dal canto suo ha accolto questa provocazione con sorriso e determinazione: “I’m the wrong guy to go at. I do my homework”.
L’impegno di James è sociale ed è inscindibilmente politico. Esso si fonda su interesse, informazione e partecipazione, non vive di slogan o di tweet. Per questo fondamentalmente è sbagliato l’intervento di Ibra, perché sta parlando di un atleta che non disperde energie sui social o in polemiche sterili portando poi un rendimento in campo altalenante. Abbiamo invece uno straordinario giocatore pensante, che domina sul parquet e si spende per tematiche sociali che lui ritiene della massima importanza. Tanto di cappello per lui e per il suo potere di influenzare molte persone che non può avere in questo senso alcuna accezione negativa.
In definitiva quindi, riprendendo il titolo di una commedia del sommo William Shakespeare: Molto rumore per nulla.
È legittimo aprire un dibattito, anche noi lo stiamo facendo, è giusto difendere la volontà degli atleti di essere “more than athletes” ma è necessario limitare l’uscita di Ibra ad una provocazione figlia di desiderio di protagonismo.
I due infatti sono il risultato di un miracolo sportivo, nati da emarginati e membri di minoranze, divenuti campioni grazie alla rabbia e alla determinazione che li ha portati in cima. Non sono poi così diversi, vi pare?